Eucarestia e famiglia (1-2-3-4-5)

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1-Convocati
Il primo momento che si vive nella celebrazione eucaristica è quello del confluire dei fedeli in un luogo comune. Quali sono le caratteristiche e le motivazioni di questa adunanza? Credo che balza subito alla vista di primo acchito il fatto che si tratta di persone diverse, che vengono spinte da ragioni e da attese diverse e che provengono da vissuti diversi. Anche se ci sono degli elementi comuni a tutti o quasi, resta comunque il fatto che c’è la congregazione di percorsi e bisogni diversi che trovano però un momento di unità. La ragione di fondo, se consideriamo il fatto alla luce della fede, è semplicemente la convocazione, la chiamata da parte di Dio.
All’origine c’è il desiderio, la proposta di Dio di convocare gli uomini in una sola famiglia attorno al Figlio. É vero che ognuno è arrivato alla fede per un percorso strettamente personale però il fatto di riunirsi in quel modo trova la sua ragione originaria nella chiamata di Dio a quel determinato tipo di evento che è l’Eucaristia.
Vorrei che innanzitutto riflettessimo su questo: si tratta della risposta ad una chiamata. É vero che oggi per noi diventa difficile individuare l’autore di questa convocazione perché constatiamo solamente la decisione e la volontà personale di chi aderisce ma, se ci pensiamo a fondo, ci accorgiamo che veniamo perché invitati. Non entriamo alla Eucaristia perché siamo i migliori o perché abbiamo dei meriti speciali ma perché Dio in qualche modo ci ha raggiunti e ci ha chiamati a stare con Lui in Cristo. Non si tratta allora di una riunione come quella della sportiva o del gruppo alpini, alle quali aderiamo perché ne abbiamo voglia; Qualcuno ci vuole lì per donarci il Figlio. La motivazione quindi è Dio; e ci accorgiamo subito che questo Dio non ha pensato solamente a me ma anche a tanti altri, diversi da me. Magari mi trovo con i miei amici o coetanei, magari invece con una persona che non conosco o…con quella che conosco troppo e che non mi va giù. Siamo insieme perché chiamati; non posso dire: “quello lì non dovrebbe essere qui” perché non è un’associazione dove ci diamo delle regole di partecipazione ma un’assemblea di invitati. Colui che distribuisce gli inviti è il Signore e noi rispondiamo semplicemente alla sua chiamata; è Lui che ci convoca e ci obbliga a riconoscerci come fratelli, figli dell’unico Padre.
L’Eucaristia non è quindi un gesto da compiere ma un gesto da ricevere. É sempre Dio che chiama; anche se l’uomo desidera di essere commensale di Dio per fare comunione con Lui, non può mai chiamare Dio al proprio convito.
Se Dio è la ragione di questa riunione, vuol anche dire che Lui vuole mettere insieme persone e storie diverse, capacità e percorsi diversi, età e situazioni diverse. Ciò che accomuna tutti è la chiamata di Dio, è ciò che si riceve, è ciò che non ci appartiene, che non viene da noi ma da Dio.
Anche la famiglia risponde a questa stessa logica nella visione di fede. Non ci siamo trovati per caso, non abbiamo semplicemente messo assieme comuni interessi o convenienze coincidenti. Siamo stati chiamati da Dio ad incontrarci e a metter su casa. É Lui che misteriosamente ci ha affidati l’uno all’altro perché riusciamo a raggiungere la nostra felicità e perché comprendiamo che la riuscita della persona avviene quando uno si fa carico della felicità dell’altro. Anche i figli non sono venuti per caso ma come persone che ci sono state affidate da Dio perché il nostro amore le accolga e le aiuti a crescere amando la vita. Se c’è una categoria che dobbiamo applicare come credenti alla vita di famiglia è quella della vocazione; una chiamata dall’alto, un intervento di Dio che ci fa esistere come coppia e come famiglia e che ci traccia la strada; ma anche un Dio che non ci abbandona, che si impegna a rimanere al nostro fianco, a soffiare sul nostro amore la giovinezza del suo Spirito.
La stessa cosa avviene nell’Eucaristia: è Lui che ci chiama a formare una famiglia di famiglie, dove la ragione dello stare insieme non è il caso o l’occasione ma la volontà di amore di Dio. É Lui che ci convoca insieme e che ci aiuta a scoprirci affidati gli uni agli altri, segnati tutti - ognuno a suo modo - dalla stessa logica dell’amore, del prendersi cura della felicità altrui ma soprattutto dalla comune attenzione obbediente a Colui che chiama e che accompagna la nostra vita, offrendoci la chiave dell’accoglienza. Il saluto del sacerdote all’inizio della s. Messa mette in evidenza proprio questo aspetto: l’iniziativa e l’azione di Dio. Il motivo e il contenuto della nostra assemblea è appunto lo stesso Signore. É la famiglia che Lui ha creato. Ci accogliamo gli uni gli altri.
Nessuno si trova a vivere sulla terra per caso. Geremia (Ger 31,3) ci assicura che dall’eternità ognuno è stato amato. Non esistevamo ancora e già eravamo amati! Isaia ci assicura che ognuno è persino chiamato per nome e conta agli occhi del creatore (Is 43,4). Siamo frutto di una storia d’amore, una storia che chiamiamo appunto storia della salvezza. Quando ci raduniamo per la Messa, dobbiamo prendere coscienza che Gesù è presente in mezzo a noi (Mt 18,20) e che siamo qui perché abbiamo capito la storia umana come storia di salvezza. L’assemblea per il fatto stesso di costituirsi dichiara l’intima vocazione nostra e dell’umanità: la comunione, l’unità, l’umanità nuova.

2-Comunità affidata alla Misericordia
Appena riuniti, dopo i primi riti che vogliono far cogliere il costituirsi di questa nostra comunità, siamo invitati a riconoscerci peccatori e a chiedere perdono dei nostri peccati. Ma perché tanta fretta, così fin dall’inizio? Ma ciò che ci caratterizza è proprio un’ossessione per il peccato? Non sembra esagerato?
Subito dopo aver ricordato che siamo riuniti per iniziativa e volontà di Dio siamo invitati a riconoscere che ci accomuna anche l’esperienza del limite e della fragilità. Il nostro modo di stare davanti a Dio è questo. Non siamo ossessionati dal peccato ma prendiamo coscienza di non essere una comunità perfetta e di non essere in6 seriti in un mondo perfetto. Per essere veri e trasparenti in questo nostro stare davanti a Dio iniziamo con un atto di umiltà e allontaniamo la presunzione, ogni accenno di superiorità, la falsa illusione di essere migliori degli altri. É evidente che questo riconoscimento collettivo passa attraverso il riconoscimento della debolezza personale. Ma questa presa di coscienza e confessione non viene fatta davanti a un tribunale civile ma davanti alla infinita misericordia di Dio. Sapendo che Dio è sempre ben disposto verso di noi, che ci accoglie così come siamo, anche nella nostra debolezza, che qualsiasi peccato non riesce a superare e ad oscurare l’amore compassionevole ed appassionato di Dio, sapendo questo allora anche noi siamo invitati ad avere fiducia in noi stessi e negli altri, ad accettarci con compassione. Dal momento che Dio ci ama così come siamo, perché non amarci anche noi tali e quali, senza falsa vergogna, senza inutili sensi di colpa? Per questo, il primo grado dell’amore degli altri e di Dio, per Bernardo, è l’amore misericordioso di sé. La tappa decisiva nel cammino della santità, secondo s. Bernardo, è il “labor humilitatis”, la fatica o ascesi dell’umiltà. Oggi verrebbe chiamato accettazione di sé, con il proprio passato, i propri desideri, le inevitabili frustrazioni e i propri limiti. Questo lavoro può essere portato a compimento solo grazie all’incontro con lo sguardo misericordioso di Dio. É amando se stessi con misericordia, quella stessa che si è sperimentata da parte di Dio al cuore della propria crisi, che si comincia ad amare i propri fratelli. Per avere un cuore misericordioso verso la miseria degli altri, bisogna prima aver riconosciuto la propria. Se il peccato e il perdono fanno parte del cammino cristiano, è normale che i deboli e i peccatori trovino posto nella comunità. Essi vi sono attesi. Una comunità che escludesse i peccatori avrebbe smesso di essere cristiana. Scrive ancora Bernardo di non escludersi dalla comune miseria per non essere esclusi dalla misericordia. Perché colui che nasconde la sua miseria, scaccia la misericordia da sé.
Con l’atto penitenziale iniziale noi affermiamo che Dio non va in cerca di una comunità perfetta, che non fa alleanza e non dà la sua fiducia solamente a quelli più bravi ma che si serve e convoca a sé una comunità incompleta, debole, incapace di rispondere pienamente al progetto divino. Non fa meraviglie nel mondo perché può disporre degli uomini migliori, perché si sceglie i più santi; fa meravi7 glie con una comunità di peccatori, di gente che ha continuamente bisogno del perdono e di ricominciare da capo. É importante sapere fin dall’inizio che questa comunità vive aggrappata alla grande misericordia di Dio e che proprio per l’esperienza del perdono diventa capace a sua volta di accoglienza e di perdono. Nello stesso tempo di sapere che la propria debolezza non toglie alla comunità la prerogativa di essere dimora di Dio, storia di salvezza, missionaria del Padre. Sono proprio i limiti personali e collettivi che mettono in evidenza la gratuità dell’amore di Dio e la sua sragionevole, sproporzionata fiducia negli uomini.
Anche questa dimensione appartiene alla vita famigliare. Si dice normalmente che due fidanzati sono pronti per il matrimonio quando hanno riconosciuto ed accettato le proprie debolezze. Finchè sono innamorati, travolti dalla passione non possono prendere la decisione di fare famiglia; devono passare prima attraverso l’esperienza del limite di ciascuno. Non ci si deve sposare con l’illusione di aver trovato il partner perfetto ma con la percezione realistica dell’altro e con la decisione di amarlo così com’è, anche nella sua povertà. Quindi la coppia nasce con questa caratteristica: la consapevolezza che prendere su la vita di uno, vuol dire anche prendere su la sua povertà, i suoi difetti e credere che è possibile ugualmente fare insieme qualcosa di bello. Anzi, forse proprio per questo è possibile la coppia, perché ognuno sa di poter essere se stesso, di non dover mettere maschere, di poter affidare all’altro anche la propria fragilità; sapere cioè che l’amore reciproco è così forte e così vero che ti rende libero, che ti permette di essere trasparente, che ti fa fare continuamente l’esperienza di essere accolto e gradito. Anche nei riguardi dei figli vale lo stesso discorso; i genitori che non sanno riconoscere i difetti dei figli o li esasperano fanno loro un cattivo servizio e non li aiutano a crescere sani. Penso a quei genitori che difendono sempre i figli per posizione preconcetta o che li umiliano di fronte agli altri o che mettono in campo spesso confronti odiosi portano i figli da una parte alla presunzione, alla prepotenza, all’incapacità di distinguere i valori o, dall’altra parte, a non avere autostima o a crearsi complessi di inferiorità o di vittimismo.
Comprendiamo quindi come la famiglia ha bisogno di uno sguardo realistico ma anche misericordioso, dove ognuno sia aiutato a capire che anche le sue debolezze non estinguono la stima, l’amore e la fiducia. In altre parole, la stessa dina8 mica che si presenta come indispensabile nella vita famigliare è la stessa che si colloca all’inizio della convocazione dell’assemblea.
3-Comunità in ascolto

L’inno del gloria e la preghiera ci introducono in una delle parti fondamentali dell’Eucaristia: l’ascolto della Parola. Ci arriviamo dopo aver ricordato a noi stessi l’importanza e la grandezza di Dio; sappiamo infatti che è facile dimenticare Dio, anche se siamo in Chiesa per lui e quindi risvegliamo dentro di noi sentimenti di lode, di supplica, di fiducia per poter vivere la sua presenza. C’è in questo una pedagogia sapiente per impedire che prevalga il rito e sparisca Dio e la categoria dell’incontro, del rapporto personale. Per lo stesso motivo nella preghiera facciamo un momento di silenzio, raccogliamo le nostre intenzioni personali e, rinnovando l’impegno di servirlo, ci disponiamo ad accogliere con libertà e con interesse la sua parola. Questo momento di silenzio è importante perché in esso siamo chiamati a costruire il contesto dentro il quale opera, si inserisce la Parola e il Progetto di Dio. Certamente, la Parola è già fissata, stabilita, non varia secondo le circostanze o i bisogni ma siamo noi il terreno nel quale questa parola viene seminata e quindi dobbiamo richiamare a noi stessi ciò che stiamo vivendo, gli interrogativi, le aspettative, le speranze, i problemi che occupano le nostre giornate.
Quando ci mettiamo in ascolto della Parola, il primo aspetto da comprendere e sottolineare è proprio quello dello stare in ascolto: siamo una comunità che è convocata per incontrare Dio e lasciarsi parlare, per entrare in comunicazione con Lui, una comunità che desidera conoscere Dio, la sua vita, il suo pensiero, i suoi sentimenti. Una comunità quindi che non vuole essere autonoma ma che si mette in relazione e si lascia guidare. Una comunità che cerca luce, cerca orientamento, cerca motivazioni, cerca significati e li cerca in Dio. Siamo cioè una comunità di discepoli e di cercatori. Non è un dovere o un peso la Parola che ascoltiamo ma un bisogno nostro. Bisogno che è voglia di relazione con Dio, di intimità, di incontro ma anche ricerca di verità, di bellezza, di sapore, di senso. Siamo persone che si fidano di Dio e che in lui sanno di poter trovare risposte per vivere degnamente e autenticamente.

Ma ancor prima. È Dio che ci ha chiamati ed è quindi Lui innanzitutto a voler entrare in comunione, a cercare i suoi figli, a voler stare con loro in intimità e confidenza.
Il primo aspetto da tenere presente allora è il fatto che c’è Uno che parla in questo momento, c’è qualcuno che interviene, che è in azione. La Parola, detta in altri termini, è un avvenimento attuale, contemporaneo, è qualcosa che accade adesso, è Dio che viene e comunica con noi, esprime il suo interessamento, il suo amore per noi, al punto che vuole comunicare, incontrarsi con tutti e con ciascuno. Comprendo subito che questo ci situa come persone importanti agli occhi di Dio, tra noi e Dio sta succedendo qualcosa. Non si tratta di prendere in mano un libro per vedere cosa dice, come si esprime, che novità contiene. Qui è qualcosa di diverso: è Dio stesso che è presente, sta davanti a te, ti parla, ti comunica se stesso, il suo cuore, la sua vita.
Se Dio è implicato, allora si tratta di un avvenimento di salvezza, di misericordia perché questo è il volto di Dio verso di noi. Si tratta di qualcosa che nasce nella gratuità e nella libertà di Dio ed è necessariamente qualcosa di bello, di prezioso, dove Dio esprime una volta di più il suo essere-per-noi, il suo amore. Guardate che è un aspetto importante: spesso succede che consideriamo Dio come un’idea o una mummia e non qualcuno che è vivo, che ha dei sentimenti, che cerca la nostra amicizia, che parla, che si fa conoscere. É la Vita di Dio, o meglio è il Dio vivo che si fa avanti e si mette in gioco.
Allora la lettura della Parola di Dio diventa un incontro personale con Dio, un rapporto di intimità, di amicizia, di figliolanza che si viene sviluppando. Non è un’esperienza di studio, un processo di apprendimento intellettuale (anche questo serve, anzi è addirittura necessario ma non è di questo che stiamo parlando), l’analisi di un testo e di alcune affermazioni, si tratta di una relazione, di una comunicazione profonda. Se la categoria con la quale vivere la lettura della Parola di Dio è quella della relazione personale vuol dire che non è in questione solamente la testa, la capacità intellettuale di afferrare i termini e l’oggetto delle parole, ma anche il cuore, ossia il sentimento, la volontà, la sensibilità, la fantasia, la memoria come in ogni rapporto umano. Vuol dire che porti tutto te stesso, le tue paure, la tua ricerca, il tuo disorientamento, la voglia di sicurezza, la tua capacità di ridere, di piangere, di pensare, la pos10 sibilità di non capire.
Devi esserci tutto, come in un incontro con un amico e un genitore. Anche la tua reazione, la tua risposta fa parte dell’incontro; non c’è incontro se tu sei solo il registratore, se in te non si accende niente, magari anche solo la rabbia o la delusione di non aver capito niente o di non essere in grado di credere.
La qualità dell’ascolto liturgico diventa più facile se la famiglia vive in un certo modo anche la capacità di dialogo interna, cioè se nei rapporti quotidiani si fa l’esperienza di ascoltarsi come un momento prezioso per l’impostazione della vita famigliare, se la parola – anche quando richiama o rimprovera o impone certe esigenze - lascia trasparire l’intenzione positiva e la densità affettiva, se si è curata l’abitudine di ascoltarsi con rispetto e con attenzione. Aiuta molto l’ascolto liturgico anche l’esperienza di preghiera in famiglia sia come libera espressione dei sentimenti e dei bisogni verso Dio sia nell’ascolto, fatto in un certo modo, della Parola. É in casa che i bambini hanno la possibilità di iniziare a riconoscere l’importanza della Parola di Dio, quando si da solennità e carica interiore all’ascolto e si educa attraverso dei piccoli segni o delle opportune motivazioni.
Sarebbe anche interessante che fosse preparato il terreno per la liturgia domenicale, ricostruendo prima il contesto familiare, comunitario e sociale. Quali situazioni vogliamo portare davanti al Signore? Con quali domande, per noi e per gli altri, ci avviciniamo al Signore? Quali sono stati i fatti significativi o mancanti nella comunità, nella scuola ecc.? Che cosa penserà il Signore del problema della fame, degli stranieri, dei poveri del mondo…? Creare attesa e poi riuscire a cogliere qualche aspetto di indicazione o di risposta nella Parola ascoltata. Che aspetto della vita di Dio oggi abbiamo conosciuto meglio? Quali luci abbiamo ricevuto?
Come ci vede il Signore? Che cosa starà pensando della situazione x o y? In che modo ciò che abbiamo ascoltato ci aiuta o ci orienta?

4 Comunità che vive nel mondo
L’offertorio è considerato liturgicamente un momento di passaggio alla liturgia eucaristica ma noi ci soffermiamo ugualmente su alcuni significati che sono stati tradizionalmente presi in considerazione. Il pane e il vino sono frutto della terra e del lavoro dell’uomo; sui beni della natura si innesta il lavoro umano. Ci raccontano della terra sulla quale viviamo e dalla quale traiamo il nostro nutrimento, ci raccontano la storia degli uomini, con lo sforzo di procurare il nutrimento necessario per la vita. Viene ricordata quindi in questo momento che la vicenda umana si sviluppa attorno ai beni materiali e sociali: la fantasia, l’intelligenza, l’industriosità, l’organizzazione, la distribuzione. Non possiamo non pensare che questi beni arrivano sull’altare santificati dal lavoro del sole, della pioggia, del contadino, del produttore di concimi, del commerciante e quindi ci portano una fetta considerevole di vita, di fratelli, di fatiche, di progetti; ma nello stesso tempo sappiamo anche che spesso i beni di questa terra e quelli che vengono lavorati dall’uomo sono fonte di conflitti, di divisioni, di lotte, di guerre.
Violenze e oppressioni che nascono per accaparrarsi il petrolio, i diamanti, le terre da coltivare, i pascoli, perfino l’acqua: quasi sempre nel corso della storia i beni materiali sono stati causa di conflitti e di ingiustizie strutturali. C’è gente che soffre, che si ammala, che muore perché alcuni accaparrano tutti i beni, perché vogliono accumulare ricchezze, perché perseguono livelli di consumo molto elevati.
Insomma il pane e il vino ci inseriscono nella realtà della storia concreta dell’umanità, nelle radici ultime dei conflitti e di tante sofferenze, nelle cause dello sfruttamento e della disuguaglianza ma ci richiamano anche la benedizione della natura e la laboriosità ingegnosa dell’uomo. Insomma la realtà contradditoria dell’esistenza; questi beni li portiamo all’altare perché Cristo li faccia suoi e così smettano di generare divisioni e lotte e diventino fonte di armonia e di giustizia. Manifestiamo la convinzione che anche i beni materiali, il lavoro, l’impegno hanno bisogno di una trasfigurazione nel nome e nello stile di Gesù Cristo per rispondere alla finalità originaria della creazione. Portarli all’altare vuol dire consegnarli a Gesù, alla sua spiritualità e ai suoi ideali perché diventino espressione di unità, di condivisione e di amore. C’è speranza e c’è preghiera in questo gesto.
Il fatto poi che siano stati scelti il pane ed il vino ci richiamano il simbolismo biblico e naturale del cibo di ogni giorno, quello che è necessario per vivere e che tutti dovrebbero avere, e del vino del1’abbondanza, della festa, dell’allegria: anche di questo hanno bisogno tutti. Vorremmo quindi che i beni della terra si incontrassero con Cristo, per assicurare a tutti il necessario e per consentire la serenità e la gioia della vita.
Sono anche il segno della nostra partecipazione, sia pur piccola e limitata, all’opera di Cristo. Per saziare la fame di pane e la sete di felicità che accomuna tutti gli uomini Dio ha bisogno di ciò che noi possiamo dare. Nelle nozze di Cana l’acqua attinta dai servitori, nella moltiplicazione dei pani il contributo di un ragazzo: anche qui, deve esserci la nostra parte, un po’ di pane e un po’ di vino. Senza non si fa Eucaristia! Noi per primi dobbiamo dare qualcosa perché avvenga la trasformazione della vita. Che cosa ci mettiamo noi? Offrire è restituirsi. Il cammino della libertà è restituirsi. L’uomo si restituisce a Dio quando prende le caratteristiche di Gesù. Ecco allora il senso dell’offertorio e il senso della colletta che si fa tradizionalmente in questa parte della Messa. Ci sono tanti problemi e difficoltà nell’uso dei beni; vorremmo che fossero al servizio del regno, strumenti di unità e di condivisione; siamo disposti anche noi a fare qualcosa che vada in questa direzione.
La famiglia è il luogo naturale dove si condivide tutto quello che si ha; dove la fatica dell’uno va a vantaggio di tutti, dove non ci sono destini differenti tra le persone. É la famiglia a diventare la chiave di lettura di ciò che dovrebbe avvenire nel mondo intero. Nella famiglia ancora comprendiamo il posto che hanno i beni materiali; sappiamo che da soli essi non giustificano l’esistenza della famiglia, che vanno inseriti in una filosofia di vita che privilegia i valori immateriali quali l’amore, la corresponsabilità, la gratuità ecc. Come nell’Eucaristia vanno inseriti in Cristo per trovare il loro giusto valore, così anche nella famiglia: hanno bisogno di essere collocati nella giusta dimensione.
Ma è buona occasione l’Eucaristia per interrogarci sul nostro uso dei beni e sulla parte che noi, come famiglia, stiamo svolgendo; qual è il nostro contributo alla logica della condivisione, della distribuzione, dell’immersione delle cose nel disegno di Cristo? Quanto anche noi siamo coinvolti, in un modo o nell’altro, nella logica di sfruttamento, di accaparramento, di ingiusta distribuzione, di insensibilità verso i più poveri, di appoggio a un sistema eminentemente consumista che difende i privilegi di pochi?

5 Comunità riconoscente

Inizia la grande preghiera eucaristica. Rendimento di grazie. La prima preghiera, il prefazio, di solito allinea i motivi per i quali siamo chiamati a ringraziare Dio. Il motivo di fondo è sempre uno e uno solo: per Gesù Cristo Nostro Signore. A seconda delle feste e delle giornate vengono indicati i motivi per i quali ringraziare il Signore: per i benefici della creazione, per l’Incarnazione, per l’opera della Redenzione, per la vocazione a essere Chiesa, per la vita degli apostoli o di Maria, tantissime sono le ragioni, ma l’elemento centrale è sempre lo stesso: per Gesù Cristo. É la centralità di Gesù che viene sottolineata, perché “tutto è stato creato per mezzo di Lui”, perché “in lui vengono ricapitolate tutte le cose”, perché Lui ha voluto la Chiesa e ne è l’anima, perché Lui pasce la Chiesa attraverso gli apostoli ecc. La liturgia quindi ci insegna a guardare a Dio con cuore riconoscente e a concentrare la nostra riflessione e la nostra preghiera sulla persona di Cristo. Ci viene spontaneo allora chiederci se Gesù è davvero così importante per noi, se riconosciamo in Lui il regalo più bello e più grande che Dio ci ha fatto, se il nostro riferimento a Lui è dettato soltanto dalla ricerca di modelli o di regole di vita o se si è sviluppata una relazione di amicizia, di comunione, di amore. C’è chi partecipa alla s. Messa più per la forza dell’abitudine o della tradizione ma non ha quasi nessuna consuetudine personale con la persona di Gesù e quindi, quando si mette a dire grazie, lo fa per la vita, per la natura, per la salute, per la famiglia, non gli verrebbe mai in mente di ringraziare per Gesù, per la sua parola, per le sue scelte di vita, per il suo amore. Ma, ancora di più, il ringraziamento non è un atteggiamento molto frequente; ci è più facile chiedere o professare la fede che ringraziare.
Prima di tutto allora dobbiamo recuperare la capacità di dire grazie; in altre parole ritrovare la capacità di stupore, di meraviglia nella nostra concezione di vita; apprezzare, ammirare, godere delle piccole cose che ogni giorno ci circondano e che sono lì senza che noi abbiamo fatto niente per meritarle, che testimoniano come ciò che è donato, che è dono è infinitamente di più di ciò che noi abbiamo costruito o guadagnato; coltivare questa sensibilità nella vita quotidiana vuol dire educarsi anche ad avere lo stesso atteggiamento nei riguardi di Dio e quindi di saper cogliere la gratuità dell’iniziativa di Dio nei nostri confronti, di riconoscere cioè la spro porzione tra la nostra piccolezza, la nostra insignificanza e la grandezza della fiducia e della preoccupazione di Dio. Ma poi riconoscere il Dio di Gesù Cristo e quindi saper precisare tutto quello che lui ha fatto per noi in Gesù, tutto quello che è per noi e in noi e quindi concentrare i motivi della nostra riconoscenza sulla persona e sull’opera di Gesù. Essere cristiani appunto vuol dire appartenere a Cristo, riconoscersi in Lui, avere un legame personale particolarmente forte con Gesù. Ringraziare vuol dire riconoscere che Gesù è dono per me, dono eccedente, che Lui non è estraneo alla verità della mia umanità, anzi che ne è il centro, la rivelazione piena. Ringraziare e accogliere.
Essere una famiglia eucaristica penso che sia una bella qualità; una famiglia che si abitua ad ammirare, a provare meraviglia, a cantare le bellezze della vita, ad avere momenti di contemplazione, di lode; una famiglia che si abitua a riconoscere ed apprezzare la gratuità come componente normale e prevalente dell’esistenza. Il rapporto di coppia è “trovato”, gli stessi figli sono dati e affidati, l’affetto dei genitori o dei nonni, l’amicizia, opportunità di conoscenza, di esperienze, di incontri ecc. sono altrettanto gratuite. Una famiglia che si abitua a questo atteggiamento riuscirà a trasferirlo anche al rapporto con Dio e con la persona di Gesù. Forse sono proprio i bambini che ci educano ad avere questa capacità di gustare come nuovo, come gratuito anche tutto ciò che si riferisce a Gesù. E comunque è attenzione importante dei genitori riuscire a sottolineare tutta la vita e l’opera di Gesù come dono immeritato, esagerato e nello stesso tempo prezioso e nutriente per la vita. Una famiglia capace di stupore e di riconoscenza è una famiglia capace di fare eucaristia. Forse comprendiamo poco a volte la stessa liturgia perché si tratta di una dimensione della vita che risulta troppo trascurata, quasi estranea a certi modi di vivere.

6 Comunità pasquale

“In questo memoriale della nostra redenzione, celebriamo, Padre, la morte di Cristo, la sua discesa agli inferi, proclamiamo la sua risurrezione e ascensione al cielo, dove siede alla tua destra, e, in attesa della sua venuta nella gloria, ti offriamo il suo corpo e il suo sangue, sacrificio a te gradito, per la salvezza del mondo”. Queste espressioni, tolte dalla quarta preghiera eucaristica, si trovano con parole simili in tutte le preghiere eucaristiche e ci spiegano che cosa stiamo facendo, qual è il significato e il valore dell’eucaristia. Facciamo memoria della salvezza ottenutaci da Cristo con la sua Morte e Resurrezione. Al centro della celebrazione c’è allora Gesù che muore e risorge.
Ma non si tratta solamente di un ricordo, di una commemorazione come quella del 2 giugno o del 4 novembre. Fare memoria, nel linguaggio biblico e culturale della tradizione ebraica, vuol dire non semplicemente ricordare qualcosa del passato ma prendere posizione di fronte a qualcuno che in quel fatto ha dato a conoscere se stesso. Fare memoria della Pasqua non significava soltanto ripetersi i fatti della liberazione del popolo dalla schiavitù egiziana ma farsi presenti al Dio che si è manifestato, e rimane ancor oggi, il liberatore del suo popolo (Gli ebrei infatti pregano dicendo: “Oggi il Signore ci ha liberati dall’Egitto”). Quindi fare memoria della morte e Resurrezione di Gesù non è ricordare un avvenimento già concluso, come una commemorazione degli eroi del passato civile, ma è mettersi davanti a Gesù Cristo, che si offre al Padre e vince la morte fidandosi di Lui. La memoria di Gesù è la sua carità verso il Padre e verso l’umanità: essa ci viene donata, l’abbiamo a disposizione qui, adesso, per noi.
Gesù nell’Eucaristia è presente come colui che fa della sua morte un atto di amore, di obbedienza, di solidarietà. Leggendo il racconto della Passione, noi restiamo stupiti dal fatto che Gesù tace. Non parla, perché quella passione e morte l’ha già spiegata prima, l’ha accettata prima, l’ha donata prima. Nell’ultima cena ha già dato un senso alla sua passione e morte: il senso del dono di sé. Offrendo il pane e il vino, dona ai discepoli il suo sacrificio sulla croce: “è il mio corpo, dato per voi - è il mio sangue versato per voi e per tutti”.
Giovanni Paolo II, parole scritte per il Congresso Eucaristico di Lourdes, al quale non poté partecipare personalmente a causa dell’attentato: “Il sacrificio della Croce è talmente decisivo per l’avvenire dell’uomo, che Cristo l’ha compiuto ed è tornato al Padre soltanto dopo averci lasciato il mezzo per prendervi parte come se fossimo stati presenti. L’offerta di Cristo in croce è il primo valore che deve essere comunicato e condiviso. Perciò Gesù prima di mori16 re ha istituito l’Eucaristia, con la quale l’uomo può accedere al sacrificio della croce. Mediante l’Eucaristia siamo contemporanei al Calvario. La frazione eucaristica del pane ha una funzione essenziale: quella di metterci a disposizione quotidianamente l’offerta primordiale della croce. La rende attuale oggi, per la nostra generazione: attuale e accessibile”.
La vera frazione del pane avviene sulla croce. É a partire dal corpo dato, dal corpo che si offre, cioè dalla persona di Gesù che si offre sulla croce, che possiamo capire l’Eucaristia. Mangiando quel pane, comunichiamo alla passione e morte di Gesù. L’avvenimento della Pasqua del Signore arriva a noi, qui ed ora; qui e ora Gesù si consegna a noi, ci dona se stesso. “L’Eucaristia è la Pasqua del Signore che si consegna alla Chiesa perché la Chiesa ci sia e sia la Chiesa di Gesù Cristo. É la Pasqua del Signore che, passando nella Chiesa, passa anche in noi, nella misura in cui siamo Chiesa. L’Eucaristia è quindi la Morte e Risurrezione di Gesù nel suo passare nella Chiesa. Va da sé che noi possiamo fare memoria della Pasqua se abbiamo un’esistenza che prende la forma di Cristo che muore e risorge.
É lo Spirito Santo che fa memoria del Figlio facendo memoria della Pasqua. Lo Spirito Santo fa l’Eucaristia e fa la Chiesa come memoria vivente del Cristo. Il Signore morto e risorto passa nella nostra esistenza e in quella della Chiesa donandoci lo Spirito Santo. Nell’Eucaristia la persona di Gesù viene a noi nell’atto di amare il Padre, nell’atto di fidarsi del Padre e di aprire le braccia a tutti i fratelli. Guardare all’Eucaristia è guardare se la nostra vita prende la forma di Cristo. Non possiamo come cristiani avere altra forma che quella presentata nell’Eucaristia. Impossibile sganciare la Chiesa dall’Eucaristia”. (G. Moioli)

Il punto da chiarire è proprio questo. Nella Messa colui che si fa presente è Gesù nel suo offrirsi al Padre per la salvezza del mondo, è il Gesù nel momento di portare l’umanità nelle braccia di Dio, di consegnare al Padre il mondo dell’uomo e di ricevere la vita di risorto. Gesù sulla croce è Dio che accompagna l’uomo anche in questa situazione estrema di abbandono, di esecuzione cruenta dell’innocente, di paura. Ed è l’uomo che affida a Dio la sua speranza, la sua fiducia, la sua possibilità di pienezza, anche quando attorno a lui tutto è buio, segnato dai colori lugubri della disperazione.
É presente quindi nell’Eucaristia anche tutto il mondo della sofferenza, della “incompiutezza”, del buio perché ci rende contemporanei al Gesù che si fa carico di tutta la storia umana per portarla con se nelle braccia del Padre e per ricevere da lui la garanzia della vita eterna. Donandosi a noi, Gesù ci dona il suo gesto di amore nei confronti del Padre e nei confronti dell’umanità sofferente. Coinvolge nel suo gesto di amore e di offerta a Dio tutti noi, la nostra vita, la nostra storia.
É questa la grandezza incomparabile, inaccessibile di questo Sacramento, che ne fa davvero il centro, “la cima e la sorgente” della vita cristiana. Non si tratta quindi di un rito, della celebrazione di un fatto passato ma della contemplazione gioiosa e ammirata del gesto di amore di Gesù, che si dona per noi e che ci porta accanto al Padre. Al centro della vita cristiana c’è l’atto di amore di Gesù e la risposta abbondante del Padre con la Risurrezione. Celebriamo il Dio che ama, che dona se stesso per averci con sé nella pienezza della vita; celebriamo il Dio capace di un amore così grande da cancellare se stesso, le proprie esigenze, le proprie prerogative per diventare fratello e benedizione per tutti. I cristiani quindi sono coloro che si riuniscono ogni domenica attorno all’amore vivo di Gesù: ne restano ammirati, danno grazie, si muovono verso il Padre, si affidano alle sue braccia, vogliono vivere nello stesso stile, vogliono imparare da lui, portare i pesi degli altri, farsi carico della storia e dell’umanità sofferente, lontana dalla vita vera. Risulta allora evidente che la famiglia ha la capacità di fare eucaristia ogni volta che crede davvero alla logica dell’amore fino in fondo; tutti i gesti di amore partecipano in qualche modo della realtà viva di Cristo che scommette sull’amore e che si fida del Padre. La migliore preparazione alla Messa è una vita dove si tenta di voler bene senza misure troppo controllate. La famiglia accompagna Gesù sulla croce e fin dentro la vita del Padre quando crede alle scelte di amore, quando c’è la voglia e la disponibilità di spendere la propria esistenza per gli altri con gioia e fiducia. Forse in famiglia è facile quando i bambini sono piccoli, non altrettanto quando sono adolescenti o giovani; ma soprattutto quando si vivono situazioni di malattia e di sofferenza a vario titolo non è sempre gradevole portare il peso con forza e con generosità.
Senza contare che questa contemplazione e questa unione con Gesù ci invita ad aprire lo sguardo e il cuore anche ad una dimensione universale e quindi a lasciarci interpellare dai bisogni e dalle sofferenze dell’umanità intera. La famiglia vive l’eucaristia quando vi partecipa ma la pratica quando si apre agli altri in atteggiamento di amore, di condivisione, di solidarietà. Non si può restare davanti a Gesù che si carica della vita e della povertà di tutti e rinchiudersi poi nel proprio guscio protetto, senza sentirsi chiamati a scelte impegnate di condivisione e di compassione fattiva. Non dimentichiamo poi che la Risurrezione di Gesù ci deve spingere a credere nella validità di un’impostazione di vita centrata sull’amore come fonte di pienezza e di senso; il Risorto è presente, abita la nostra vita e la nostra famiglia, ci assicura spazi di speranza e di gioia. Non esiste più nessun atto inutile e insignificante nella nostra vita. Ogni nostro pensiero, ogni nostro sentimento, ogni nostro gesto, ogni nostra azione possono venire uniti al grande dono di Gesù e possiamo quindi offrirli al Padre.
Questa verità è ricordata più volte dal Concilio: “Partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana, i fedeli offrono a Dio la vittima divina e se stessi con essa” (Lumen Gentium, 11).
“Tutte le opere dei laici, le loro preghiere, le iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, e persino le molestie della vita, se sopportate con pazienza, diventano spirituali sacrifici graditi a Dio per Gesù Cristo, i quali nella celebrazione eucaristica sono piissimamente offerti al Padre insieme all’oblazione del corpo del Signore” (Lumen Gentium, 34).
Celebrare l’Eucaristia vuol dire riconoscere l’amore di Dio nei nostri confronti, accettare questo dono di amore, mettersi dalla parte dell’amore.
É la liberazione, la salvezza, la Pasqua (passaggio) dovuta al Sangue dell’Agnello, è quindi celebrazione della libertà donata da Gesù e celebrazione dell’impegno di vivere allo stesso modo per portare libertà e salvezza. Il dono e l’impegno, il passato e il futuro, la realtà e la meta.
C’è quindi un doppio aspetto da mettere in risalto: - prima di tutto è necessaria la convinzione che Cristo è il senso della vita, bisogna essere innamorati, affascinati da lui. Il sentimento di Geremia: “mi hai sedotto, Signore e io mi sono lasciato sedurre”. Questo non è possibile senza una capacità diffusa di riflessione, di contemplazione del mistero di Cristo. Direi che non è possibile senza spazi di preghiera e di interiorità. Gal 4, 9: “ora invece che avete conosciuto Dio, anzi vi siete lasciati conoscere da lui”: solo chi ha speso del tempo e intensità di emozione, di riflessione, di preghiera per conoscere Dio attraverso Gesù o, meglio, si è lasciato raggiungere, esplorare, confortare, illuminare da lui è in grado di riceverlo con sincerità ed efficacia.
Perché tante comunioni così poco significative per la nostra assimilazione a Cristo? Probabilmente, per mancanza di fede, ossia perché lo abbiamo desiderato, amato, scoperto troppo poco, perché non è davvero dentro di noi, non lo valutiamo abbastanza, è magari una delle cose o dei beni della vita. Insomma è decisivo quello che c’è prima della Messa, il rapporto che viviamo con lui nel nostro impegno quotidiano. La comunione si prepara prima, molto tempo prima; ma vale la pena anche avere la preparazione immediata, perché, distratti come siamo, spesso non sappiamo nemmeno quello che stiamo facendo.
É da dire anche che tutta la celebrazione ha questa capacità e questa intenzione di aiutarci a capire “quale” Cristo stiamo per ricevere: le letture ci spiegano la sua vita, il sacerdote è segno del Cristo che raduna il suo popolo ed è pastore; la preghiera eucaristica ci porta davanti al gesto centrale di Gesù, la Morte e la Resurrezione; i fratelli della comunità sono anche segno di un Cristo ragione di unità….

7 Comunità che prega

É interessante esaminare con attenzione le preghiere che fanno parte della liturgia eucaristica e attraverso di esse scoprire quali sono i grandi interessi di Dio e quali sono quindi anche le grandi finalità dell’azione di Cristo e conseguentemente anche del cristiano. É importante capire che questa preghiera rivela il significato della morte e risurrezione di Cristo e quindi estende alla comunità le finalità dell’azione di Cristo. Si intercede per volere, con Dio, il dono di Cristo per tutti.
Innanzitutto si invoca l’azione dello Spirito Santo per dare unità a coloro che sono presenti alla celebrazione; poi si chiede di entrare nella vita eterna, nel regno promesso a godere della compagnia di Maria e di tutti i santi; continua poi chiedendo pace e salvezza per il mondo intero; in ogni eucaristia si prega per la Chiesa nelle sue varie membra e si invoca per essa l’unità, la fede e l’amore; tutte le volte poi ci si ricorda di pregare per i defunti, chiedendo per loro l’ammissione alla contemplazione beata del volto del Signore. In gradi e modalità diverse queste sono le grandi intenzioni sempre presenti nella preghiera eucaristica. Il cristiano quindi dovrebbe avere queste intenzioni nella sua vita e nella sua preghiera, proprio perché l’Eucaristia è anche scuola di preghiera. Unità, fede, amore, pace, salvezza e vita eterna sembrano essere le costanti; i presenti, la Chiesa, i defunti, il mondo intero. Non sembra secondario ricordare che la comunità che si riunisce per l’Eucaristia ha delle preoccupazioni particolari, coerenti con la celebrazione stessa: la prima è l’unità tra tutti i presenti. Si invoca la pienezza dello Spirito proprio per essere uniti; c’è la consapevolezza che la divisione non è compatibile con l’eucaristia; dove ci si mette insieme attorno a Gesù che muore in croce e risorge deve nascere come primo frutto l’unità. Gesù è morto appunto per “riunire i figli d’Israele dispersi” (Gv 11, 49-50), per “fare dei due un solo popolo con il sangue della sua croce” (Ef 2, 13- 18). Non può quindi non essere presente nel cuore dei celebranti il peso della divisione dei cristiani e della divisione degli uomini e quindi l’invocazione forte per poter dare passi concreti sul cammino dell’unità.
Quando si prega per la Chiesa, si chiede la fede e l’amore; anche qui la preghiera liturgica è fondamentale per capire che cosa ci si deve aspettare dalla Chiesa. Non si chiede efficienza, potere, for za derivante dalla compattezza o dalla chiarezza teologica, prestigio; si chiede per la Chiesa - quindi per noi - fede e amore.
É su queste due direttrici che si deve muovere la Chiesa, sono queste, per così dire, le sue specialità. É questo il nostro modo di rispondere all’azione dello Spirito che soffia su di noi. A volte siamo preoccupati perché non funziona la pastorale giovanile o perché la morale sessuale sta andando a rotoli o per il fallimento delle famiglie e ci preoccupiamo molto delle iniziative da prendere sul piano pastorale o sul piano sociale e legislativo: preoccupazioni legittime e doverose, ma la nostra prima preoccupazione deve essere quella della autenticità della nostra fede e della carica di amore che sappiamo vivere. Senza di questo corriamo il rischio di ridurci ad essere un’agenzia culturale o ideologica o un gruppo di pressione giuridica, perdiamo il centro della nostra ragione di essere. Fede vuol dire relazione personale ed esclusiva con Dio, vuol dire intimità e familiarità con lui, vuol dire esperienza della sua misericordia, vuol dire sequela di Gesù, vuol dire radicalismo evangelico, vuol dire stili di vita: è su questo che dobbiamo camminare, progredire, diventare credibili. Amore è l’altra faccia della fede; una fede cristiana genuina non può dimenticare l’impegno di crescere nell’amore, di imparare l’amore: di accogliere prima di tutto l’Amore vivo, fresco, attuale, sempre nuovo e rigeneratore di Dio e di diventare amore negli atteggiamenti, nei sentimenti, nelle parole, nelle scelte. L’amore non è il vestito della festa del cristiano ma la sua carta di identità, ciò che lo costituisce nel profondo del suo essere, il DNA del cristiano. Ci raduniamo proprio attorno al gesto supremo di amore di Gesù: è quello il nostro modello, è quella la nostra ragione. Se crediamo all’amore (1Gv 4,16) è perché abbiamo avuto la fortuna di incontrare Gesù e di contemplare nella sua vicenda pasquale che l’amore paga, che l’amore è la vita vera, la porta d’accesso alla riuscita dell’esistenza. Il Risorto è il Crocifisso, è colui che ha fatto della sua vita un dono di condivisione, di solidarietà, di com-passione, di universalità. La Risurrezione è la risposta del Padre alla vita oblativa di Gesù, è come la dichiarazione ufficiale, solenne che questa è la vita divina, la vita vera, quella che entra nella pienezza e nella definitività, quella che supera la paura e la morte, la lontananza e la divisione, quella che genera speranza. Pace e salvezza sono ancora temi importanti e abbastanza coincidenti. La pace, nel linguaggio biblico, non si riferisce solamente all’assenza di conflitti ma all’armonia profonda dell’uomo con Dio, con se stesso, con la natura, con gli altri. E questo coincide davvero con la salvezza.
Non dimentica mai la liturgia di indicarci la meta verso la quale siamo proiettati: la vita eterna. Descritta con brevi accenni (contemplare il volto di Dio, cantare la sua gloria, aver parte nella comunità dei santi), allude a una visione escatologica, resa presente già adesso e attesa come realizzazione futura. Anche attraverso la preghiera per i defunti ci introduce nel concetto della comunione dei santi, con i quali formiamo l’unica Chiesa, e ci ricorda che il punto d’arrivo è nientemeno che la gloria di Dio, insieme con Maria, lì dove Maria, una di noi, ci ha preceduto. Il cristiano dovrebbe quindi tenere presente che non vive per l’oggi visibile e materiale, che non si accontenta di rendere confortevole la sua vita di adesso, che i suoi compagni di viaggio non sono solamente coloro che gli stanno attorno ma che è già seduto nei cieli in Cristo, che percorre le strade del mondo in compagnia dei santi, che anela il faccia a faccia con Dio, che tende a una esplosione di verità e di luce e di bellezza.
I destinatari della preghiera eucaristica sono i presenti, la Chiesa universale, il mondo e i defunti. Sono qui indicate le attenzioni del cristiano: la Chiesa particolare nella quale si trova convocato fisicamente, l’apertura a tutta quanta la Chiesa diffusa in tutto il mondo, il mondo intero. Dal particolare all’universale; è interessante che ogni eucaristia si apre a un orizzonte universale; è il sacrificio di Cristo che ha questa destinazione e quindi anche colui che si unisce ad esso deve condividere questa visione e questa de stinazione della propria fede e della propria preghiera. Le Chiese della missione, le Chiese d’Asia, d’Africa si affacciano a questa assemblea; i problemi e le attese del mondo intero hanno diritto di presentarsi. É a tutta questa realtà che è rivolta l’azione del Risorto e quindi l’azione di ogni piccola comunità. Si rompono gli spazi ristretti dell’edificio, si superano i confini dei campanilismi per assumere un respiro universale. É importante tener presente il fatto che una comunità non è isolata, sola, ripiegata su se stessa e capire invece che è necessariamente, condotta dall’Eucaristia, ad aprire lo sguardo e il cuore verso tutta la Chiesa e tutto il mondo, capire che lì, in quella modesta assemblea, si compie qualcosa che ha legami e influenze su tutta la realtà umana ed ecclesiale. (Abramo di fronte a Sodoma).
La famiglia che partecipa della celebrazione eucaristica si trova quindi immersa dentro un insieme di valori e di obiettivi che aiutano a respirare profondamente, che mettono a confronto con orizzonti molto ampi, sia sul versante dei valori sia su quello dei legami. Vivere di fede, di amore, di pace e di salvezza, camminare in compagnia di Cristo, di Maria e dei santi verso la contemplazione del volto di Dio, sentirsi parte di una comunità misurabile e di una non misurabile, legati e a favore di un mondo intero, di popoli, di storie, di culture, di religioni diverse, lontane dipinge la famiglia come arcobaleno di colori. Insomma, la partecipazione alla preghiera eucaristica invita la famiglia a evitare la chiusura su se stessa e sull’immediato, a educarsi a puntare alto e a guardare largo, a diventare crocevia di pensieri e di attenzioni, a esser porto dove approdano navi partite da altri mari e da dove si salpa per altri confini.

8 Comunità di comunione

L’Eucaristia è un banchetto. Troppe volte Gesù nel corso della sua vita si è seduto a mensa con la gente e troppe volte ha paragonato il Regno di Dio a un banchetto perché questo aspetto potesse essere trascurato. Ma soprattutto le parole della consacrazione ricordano che Gesù ci ha lasciato il compito di fare memoria di lui nel corso della Cena Pasquale. É la cena della famiglia, degli amici più 23 stretti che celebra il Dio liberatore, il Dio che passa nella vita dell’uomo per condurlo alla libertà, all’esperienza dell’essere popolo. Parlare di banchetto, di cena vuol dire prima di tutto affermare i legami di unità, di intimità di coloro che sono radunati e vuol dire inserirsi in un contesto di festa. Di solito non ci si ritrova attorno alla stessa tavola per caso ma perché c’è qualcosa che accomuna le persone. Il motivo per il quale i cristiani si radunano nell’eucaristia è la fede in Gesù ed è il suo mandato di fare memoria in questo modo; ma nei riti della comunione ci viene fatto capire che c’è di più, molto di più. Che Gesù ci chiama, ci invita perché vuole appunto essere motivo di unità e di comunione fra di noi; offre se stesso in cibo, comunica la sua vita perché ci rendiamo conto che abbiamo molto che ci unisce. “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1Cor 10, 16s). É necessario prendere coscienza del ragionamento di Paolo: l’eucaristia è comunione con Cristo e quindi deve portare alla comunione tra di noi perché tutti siamo nutriti dallo stesso e unico Gesù. La prima conclusione che Paolo trae è allora quella della comunione tra fratelli. Al punto che più avanti rimprovera la comunità perché ci sono divisioni, non si aspettano per la cena, con il risultato che alcuni mangiano e bevono in abbondanza e altri restano senza niente; ma questo, scrive, “non è un mangiare la cena del Signore”(1Cor 11, 17- 22). Il primo frutto della Comunione eucaristica è la comunione fraterna; Gesù si dona proprio perché sappiamo vivere in unità tra di noi, perché l’esserci alimentati dello stesso cibo rafforzi i legami di amore e di responsabilità tra di noi. Alla fine dobbiamo dire che non si partecipa all’Eucaristia solamente per nutrirsi in modo individuale di Gesù e della sua Parola; Lui ci chiama con la finalità che diventiamo popolo, famiglia, che scopriamo la legge dell’amore che ci rende fratelli e che ci responsabilizza nei confronti di tutti gli altri. La comunità radunata diventa quindi un segno di quello che Dio desidera per gli uomini: un popolo radunato, con vincoli di amore e di comunione, che celebra con gioia la salvezza. Sicuramente, per arrivare a questa consapevolezza comunitaria dell’Eucaristia, bisogna dare intensità al rapporto personale, alla comunione intima con Gesù.
Cosa vuol dire, allora, “fare la Comunione”?

1. Mi pare che il primo significato è quello che gli da Gesù Cristo stesso. “La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me, vivrà per me.” (Gv 6, 55- 57). Gesù offre il suo corpo, offre questo pane per dimorare in noi, per identificarsi con noi. L’intenzione di Gesù è quella di significare e realizzare la comunione intima con ciascuno. La comunione esprime quindi prima di tutto l’intenzione di Gesù: è suo il desiderio di fare comunione con noi, è lui che lo ha pensato e voluto. Per noi ha quindi prima di tutto il significato di aderire, accogliere la volontà sua. “Venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi e io vi ristorerò”: è appunto lui che ci invita e che si propone come il ristoro nella fatica e la stanchezza della vita. Ci offre la sua amicizia, la alleanza di comunione con noi. É qui che si percepisce fino a che punto Dio è dalla nostra parte, a nostro favore: fino a essere uno con noi, fino a perdere se stesso dentro di noi. Non sta di fronte a noi o sopra di noi per darci sicurezza o per ricevere onore ma vuole vivere in noi, rinunciando alla sua alterità, alla sua identità, sacrificando se stesso e mettendosi a nostra disposizione, nelle nostre mani. Il suo essere per noi non è sostituirsi a noi ma unirsi, entrare nella nostra vita. Dà quindi un grande valore all’uomo, al punto da indicarlo come la sua dimora, la sua passione. Qui raggiunge il culmine l’ammirazione del salmista: “Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi?” (Salmo 8) E questo progetto di amore e di comunione che si svela è personalizzato, non è semplicemente per l’umanità ma è offerto a me; lui aspetta me, mi conosce per nome ed ha interesse e preoccupazione per me. Io sono il motivo della vita di Gesù e della sua Morte; senza nulla togliere all’universalità della salvezza, lui mi fa capire che c’è un’attenzione specifica e particolare per la mia persona. Al punto che ciascuno di noi può dire con s. Paolo: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2, 20). Viene a verità qui quanto dice la lettera agli Efesini: la scelta di Dio di amarci in Cristo prima della creazione del mondo e di redimerci con la sua grazia e di fare di Cristo il cuore del mondo. Nell’offerta del suo corpo vediamo proprio questo disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose, di far capire che tutto trova in lui, e solo in lui, la sua ragione e la sussistenza, il senso e la pienezza. Ecco quindi a che cosa aderisce il cristiano che riceve la comunione.

-2-Ma è anche esprimere un preciso progetto di vita, un’intenzione esplicita: vivere in lui e per lui. “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimante in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla.” (Gv 15, 4-5). L’invito insistente di Gesù a rimanere in lui, quindi a restare uniti, a fondarsi su di lui, trova una sua espressione concreta nell’offerta del suo corpo. Chi lo mangia, vuole rimanere in lui, la comunione ha questa caratteristica di voler rispondere all’invito di Gesù. Non è semplicemente un appropriarsi di qualcosa per iniziativa nostra, perché rientra nei nostri calcoli, è rispondere, accettare, accogliere ciò che Lui ha pensato e proposto e quindi esprime innanzitutto un impegno di adesione personale a Gesù Cristo, la convinzione che senza di lui non siamo niente, che lui ci è necessario, che è anzi la nostra identità, la nostra verità più sentita e profonda perché solamente in lui troviamo la vita eterna, la resurrezione, la gioia, possibilità di portare frutto. Ciò che è indistruttibile nella vita dell’uomo è la sua comunione con Dio. Un’esistenza che prende la forma di un abbandono a Dio (come quella di Gesù) e quindi diventa sempre più esistenza per gli altri, è già una vita che ha dentro di sé le ragioni della sua indistruttibilità, il premio della risurrezione. Vuol dire vedere in Cristo il tesoro, il bene più grande della vita e impegnarsi in un processo di trasformazione in lui. Lo accettiamo come cibo, quindi come nutrimento per noi, desideriamo che la sua vita, i suoi ideali, la sua forza siano assimilati ed entrino nel circuito della nostra esistenza, del nostro sangue, al punto che se parliamo, sia lui a parlare, se facciamo, sia lui a fare, se decidiamo, sia lui a decidere. Insomma la meta è quella di superare qualsiasi divisione o separazione tra la mia vita e quella di Cristo, di “prestare” tutto me stesso a Gesù. Questo è possibile se anche noi, come Paolo, consideriamo Gesù come un bene ineguagliabile, supremo, di fronte al quale niente può reggere il confronto: Fil 3,7- 14. É impressionante l’affermazione di Col 2,17: la realtà è Cristo. Ricevere la Comunione ha senso quando uno percepisce, sente le cose così: sente che Cristo è la realtà. Come non ricordare qui le espressioni di Paolo, secondo le quali “Cristo è il segreto di Dio, tenuto nascosto per secoli e generazioni e ora fatto conoscere a noi”; ricevere Gesù vuol dire aderire al progetto di Dio, al suo piano di salvezza, accettare la sua volontà. É quindi gesto grande di fede, di impegno con lui. (d. R.Tamanini)