LE TAPPE DELLA PREGHIERA
La preghiera è un cammino con delle tappe di crescita. Il bambino che va a scuola, prima deve imparare a te­nere la matita in mano, poi imparerà a fare i segni; solo più tardi imparerà a scrivere; alla fine, cresciuto, sarà in grado di imparare anche la stenografia e il computer. Ma l'apprendimento della scrittura procede per tappe ben pre­cise, che l'interessato spesso non percepisce neppure. Così è il cammino della preghiera. Se c'è metodo e ap­plicazione, c'è sviluppo e crescita graduale e armoniosa. Se non c'è metodo né applicazione, sono impediti la cre­scita e Io sviluppo. Non si deve lasciare la preghiera a se stessa, è un'in­coscienza. Se in un orto volete una buona produzione di ortaggi, dovete darvi da fare. Un orto lasciato a se stesso vi dà al massimo qualche ciuffo d'insalata. L'esperienza suggerisce che la preghiera ha cinque tap­pe di crescita, è come una montagna da scalare.

1. La tappa della preghiera «parole vuote»

È la preghiera deforme, la non-preghiera. Potremmo non considerarla preghiera, non merita questo nome. Ma essendo tanto diffusa, siamo costretti a parlarne. Gesù Cristo l'ha condannata, l'ha esclusa: «Quando pregate, non moltiplicate vane parole come i pagani» (Matteo 6,7). I rosari malmenati, le messe alla svelta, i sacramenti buttati alla rinfusa, le comunioni, le confessioni diventate una routine, sono abitudini molto diffu­se. È una desolazione. È una bestemmia. È un'eresia. E tante persone vivono legate a questo tipo di preghiera tutta la vita. Si esce? Certo! Ma è come guarire dal cancro. Il verbalismo infatti è il cancro della preghiera. Il cancro non si cura con un'iniezione: ci vuole l'intervento chirurgico e la cobaltoterapia che brucia i tessuti infetti. Ci vuole coraggio. La prima cura è esserne inorriditi. Chi non si sente malato, non ne esce. Chi dorme sonni beati, non guarisce.

2. La tappa della preghiera «monologo»

Quando nella preghiera di tanto in tanto ci si rende conte che si sta parlando con Dio, e si fa un po' di atten­zione a quelle che si dice, ma Dio è ancora lontano mille miglia, Dio non è persona, non è vivo, non è sentito, è una realtà della stratosfera, non è una presenza — allora siamo al monologo. Il monologo è parlare a se stessi, interloquire con se stessi. Non è comunicare: comunica forse con gli altri une che parla con se stesso? No, è solo un tipo strano, che pro­babilmente non comunica nemmeno con se stesso. Gira a vuoto. È molto frequente questo modo di pregare. E anche pericoloso, perché chi prega cosi ha l'Illusione di fare ma non fa. Se non pregasse affatto forse sarebbe meglio, per­ché presto o tardi cercherebbe un rimedio.
Questo tipo di preghiera non opera sui nostri mali, lascia il tempo che trova. Non guarisce, addormenta la co­scienza.
La tappa della preghiera «dialogo» Siamo approdati alla preghiera. Quando sappiamo in­staurare un dialogo con Dio, preghiamo. Quando Dio diventa per noi persona, persona viva che sente, allora ci vede, ci ama, e partecipa (lui è sempre cosi, ma noi per la nostra superficialità possiamo anche non accorgerce­ne). Allora anche noi diventiamo persone vive, comuni­chiamo veramente con lui, e lui può cosi comunicare ve­ramente con noi.
La preghiera si fa calda, apriamo a lui i problemi con fede, e Io ascoltiamo. La differenza con le due tappe precedenti è enorme. Prima il centro della preghiera eravamo noi, ora comin­cia a esserci anche lui, noi e lui, lui e noi. Nasce l'amici­zia. Nasce il sondaggio della coscienza. Nasce il ponte con Dio. I nostri problemi ora possono essere influenzati da Dio. Dio puo’ toccarci, puo’ guarirci, trasformarci. Siamo approdati alla preghiera. Se ci rimaniamo sta­bilmente facciamo grandi progressi nella carità, nella fe­deltà al dovere, nel riscatto dal male. Ma bisogna impa­rare a vivere stabilmente. Ciò esige sforzo, anche metodo: occorre imparare a concentrarsi, perché è un problema grosso di concentra­zione. Dio sfugge ai sensi. I sensi non operano mai un con­tatto sensibile con Dio. Dio è spirito, è pensiero puro, e solo se anch'io mi faccio pensiero ho modo di raggiun­gerlo. Tutto questo esige sforzo, ma la preghiera dà i prima risultati sorprendenti.

4. La tappa della preghiera «ascolto»

Giunta al dialogo, viene da chiedersi: si può andare ol­tre? Non solo si puo’, ma si deve. La vetta della preghiera non è ancora qui. Occorre giungere all'ascolto. Quando la preghiera si fa abitualmen­te ascolto, siamo molto in alto nella preghiera. Natural­mente bisogna essere Ii’stabilmente, non a sprazzi. Chi non è allenato alla preghiera puo’ anche fare una puntatina a questo grado di preghiera, poi cala subito giù. È faticoso. Come si fa? Occorre partire dalla purificazione, biso­gna imparare a scorticare l'orgoglio. Bisogna farci verità. Diventare verità: Dio non riesce a parlarci finché non ab­biamo imparato a toglierci le maschere dal volto. Ecco la prima operazione importante: dirci la verità, calarci nella verità, fare la verità dentro di noi. Metterci davanti alla nostre miserie con grande coraggio, dire pa­ne al pane e vino al vino. Viviamo di sotterfugi. Prima di entrare in contatto con Dio bisogna capovolgere la nostra situazione di comodo, capire l'orrido delle nostre miserie, metterci in povertà as­soluta davanti a lui. Quando siamo diventati schiettezza, allora Dio può veramente irrompere... e parlare.


5. La tappa della preghiera «amorosa»

È la vetta della preghiera. Quando la preghiera diven­ta semplicità assoluta perché si cambia in amore. Quan­do la preghiera si fa vita. Quando diventa un abbando­narsi assoluto alla sua volontà. Quando diventa azione, donazione, offerta. Quando le parole non servono più per­ché impacciano, ritardano, complicano. Quando basta guardare a lui e con un semplice sguardo si coglie tutto, si fa tutto, si dà tutto. È la vetta della montagna. Sulla vetta si arriva, ma qua­si sempre si arriva per ridiscendere, non si pianta la tenda per restare; si prova l'ebbrezza della vetta ma anche le raf­fiche di vento e di tempesta. Sulla vetta si gode, ma poi si scende. Noi poveri uomini, si scende; i santi restano. Ma il ricordo della vetta è sempre là per dirci quanto Dio ci ama. Chi riesce a stare a lungo è a poste, è sotto un dono grande di Dio; chi ci sta sempre è un santo. Per tutti è un richiamo nostalgico, un confronto, uno sprone per la battaglia della preghiera di tutti i giorni.
Ma bisogna puntare alla vetta per dace nerbo alla no­stra preghiera: che la nostra vita diventi amore, tutto amo­re, solo amore. Sovente la montagna della preghiera ci sta davanti, e noi come ragazzetti, invece di arrampicarci, scorrazziamo su e giù. La preghiera ha i corsi e i ricorsi, va su e giù, ha alta e bassa marea, ha le quattro stagioni. Ma dobbiamo abi­tuarci a uno stile di preghiera robusto, che ci porti al li­vello più alto possibile. Più la preghiera è fatta di ascol­to, più è ricca; più è fatta di amore, più è qualificata. «Non chi dice "Signore! Signore!" entrerà nel regno, ma chi fa la volontà del Padre mio». La preghiera non è fatta di gingilli di parole, di bei pensieri; è fatta di cose sode, di ubbidienza seria alla vo­lontà di Dio.
( sintesi tratta liberamente da don Gasparino: “Le tappe della preghiera”)